Saturday, November 28, 2020

Il mio processo creativo


Adesso che ho la mia voce (in italiano) e il mio editore (in Italia), e entrambi i miei bambini a scuola, ho avuto il lusso di scrivere un romanzo in un arco di tempo normale e osservare il mio processo creativo dall’inizio alla fine. Lo metto nero su bianco per me, ma potrebbe anche interessare a qualche altro creativo, non si sa mai.

Now that I have my voice (in Italian) and my publisher (in Italy), and both my kids are at school, I’ve had the luxury of writing a novel within a normal timeframe and observing my creative process from beginning to end. I’ll jot it down for my own benefit, but it might be of interest to other creatives, you never know.

1) L’ispirazione per una storia (ma lo stesso vale per un articolo) mi arriva in un momento del tutto banale, magari mentre sto andando al supermercato. Ciò che la distingue da un pensiero passeggero è il senso di responsabilità che la accompagna. Cerco di spazzarla via ma l’idea continua a pippiare nella mente come un ragù a fuoco lento finché non emerge il suo senso più profondo e non posso più ignorarla.

1) The inspiration for a story (but it’s the same for an article) comes to me in a totally trivial moment, perhaps on the way to the supermarket. What makes it feel different from a fleeting thought is a sense of responsibility that comes with it. I try to wave it away but the idea keeps simmering away like a bolognaise sauce in the back of my mind until its deeper meaning arises and I can no longer ignore it.

2) Obbedisco. Comincio a raccogliere il materiale necessario – episodi di storia, miti, ricordi, ecc. – che si incastrano in modo del tutto inaspettato. Prendo appunti come un detective, ma ci vuole tempo per maturare un’intera trama. Per quanto riguarda la struttura narrativa sono un vero secchione, una cacacazzo insopportabile. Non farmi incominciare.

2) I obey. I start gathering the necessary material – moments in history, myths, memories, etc. – which then fit together in surprising ways. I take notes like a detective, but it takes time to build an entire plot. As for narrative structure, I’m a total nerd, a complete pain in the butt. Don’t get me started.

3) Avere lo scheletro del romanzo mi rassicura ma non mi basta per scrivere il primo capitolo: devo prima camminare. I due emisferi del mio cervello devono parlarsi cineticamente. Braccio destro gamba sinistra, braccio sinistro gamba destra, logica e follia, intelletto e fantasia. Scattando come un passero per il parco dietro casa, le idee scorrono libere e nitide: la fisionomia dei personaggi, le loro voci, i rumori odori colori dei luoghi. Le parole iniziano a premere con urgenza come una vescica piena finché non arrivo a casa per annotarle furiosamente in un quaderno.

3) Having the skeleton of the novel is reassuring but it’s not enough for me to start writing the first chapter: first I have to walk. The two hemispheres of my brain have to talk to each other kinetically. Right arm left leg, left arm right leg, logic and madness, intellect and imagination. Darting like a sparrow through the park behind my house, the ideas flow with crystal clarity: the physical features of the characters, their voices, the sounds smells colors of the settings. The words become urgent, pressing on me like a full bladder until I can get home to furiously jot them down in a notebook.

4) Segue la fase più imbarazzante del mio processo creativo. In base a quegli appunti quasi illeggibili, mi abbandono a un flusso di coscienza per abbozzare l’intera scena nei minimi dettagli. Uso frasi spezzate e sgrammaticate, costellate di parole in inglese o napoletano o una mia lingua inventata. Il computer disapprova col rosso e blu, lo schermo è una bandiera americana. Ma la velocità di battitura è indispensabile se voglio catturare e ordinare le idee che svolazzano caotiche e delicate come farfalle, se voglio concretizzare sulla pagina il film che mi sono fatto in testa. Insieme ai personaggi mi agito, mi commuovo, lo schermo si liquefa. Infine ciò che ho davanti è la pagina di un diario adolescenziale, stupida e melodrammatica.

4) Next comes the most embarrassing phase of my creative process. Using those practically illegible notes, I sketch out the entire scene in detail in a stream of consciousness. I use broken sentences riddled with poor grammar and words in English, Neapolitan or my own invented language. The computer disapproves in red and blue, the screen looks like the American flag. But fast typing is essential if I want to catch and organize the ideas fluttering with the delicate chaos of butterflies, if I want to make the movie in my head a reality on the page. Along with the characters I become agitated or moved to tears, the screen turns to liquid. At the end what I have before me is an entry in a teenager’s diary, silly and over the top.

5) Ma ora che viene il bello. Piano piano ripulisco la scena come una serva nella stanza del re. Cestino le sciocchezze, lustro le superfici, profumo l’aria, lucido i gioielli. I sostantivi, aggettivi, verbi sono pietre preziose nelle mie mani che soppeso e scelgo come una bambina che gioca a fare il gioielliere. Ma non ho carta bianca. Dopotutto sono un’intrusa, una persona di basso rango che deve stare zitta, tendere l’orecchio. Shhh, ascolta. C’è una canzone messa a bassissimo volume e il mio compito è quello di ascoltarla segnando tutte le note, rispettando il ritmo. Non capto bene ogni frase, almeno non subito, a volte mi devo alzare per fare un thè e entrando in un’altra stanza il cervello si riassetta. Quella musica continua a suonare anche quando vado a prendere i figli all'uscita della scuola, o lavo i piatti, o dormo. L’alba è oro e il mio quaderno sempre a portata di mano. So di aver terminato il capitolo quando mi esce una risata di gioia.

5) But now comes the fun part. I carefully clean up the scene like a maid in the king’s boudoir. I toss out the nonsense, wipe the surfaces, scent the air, polish the jewels. In my hands all those nouns, adjectives and verbs are precious stones that I can pick and choose from like a little girl pretending to be a jeweller. But I don’t have free rein. After all, I’m an intruder, a person of low rank who must be quiet, keep an ear out. Shhh, listen. There’s a song turned down really low and it’s my job to hear it and write down all the notes, the rhythm. I’m not able to catch every sentence, at least not immediately; sometimes I need to get up to make myself some tea and just by going through a doorway my brain resets itself. The music keeps playing even when I do the school pick-up or wash dishes or sleep. Sunrise is pure gold, and my notebook is always within arm’s reach. I know I’m done with a chapter when I laugh with joy.

Tuesday, September 10, 2019

Lettore, lettrice (Reader)


1.
È a te che mi racconto, caro mio lettore: confessioni
al mio lontano confessore padre adorato maestro.
In te riverso gli uragani e gli irrigatori della mia infanzia,
le quotidiane illuminazioni, le più spicciole osservazioni:
Senti stamattina questi uccelli che spettegolano come vaiasse,
mentre da te il silenzio ti avvolge nella sua coperta stellata…
Guarda queste nuvole australi che viaggiano sul globo da ovest
a este, escogitando e sfilacciando draghi, sirene, elefanti…
Tu sei i miei occhi, le mie orecchie, la parte della mia anima
alla quale scrivo, il mio taccuino in tasca, la chiave di casa,
fratello amante carissimo amico mio, tassello mancante.
Vediamoci là, sull’orizzonte, su quella riga tra sogno e realtà,
parliamoci se preferisci nello spazio tra le righe, ma vediamoci.
Ma appena ti ho vicino, nella macchina che spacca la notte
come un déjà vu, portandoci chissà dove (chissà!),
le parole volano via come fogli risucchiati dal finestrino:
in quella sordità la geografia non esiste, il tempo svanisce,
e ho solo voglia di appoggiare la testa sulla tua spalla,
intrecciarmi nelle maglie del tuo maglione, dissolvermi.
 
1.
It’s you that I write to, my dear reader: confessions
to my faraway confessor father beloved teacher.
It’s you that I pour my childhood into, its hurricanes and sprinklers;
into you go my daily insights and most insignificant thoughts:
Listen to the birds this morning gossiping away like fishwives,
while over there silence wraps you in its starry blanket…
Look how the clouds, here down under, travel the globe from west
to east, doing and undoing dragons, mermaids, elephants…
You are my eyes, you are my ears, the part of my soul
that I write to, the notebook in my pocket, the key to home,
my brother lover dearest friend, my missing piece.
Let’s meet there, on the horizon, the line between dream and reality,
if you like we can talk in the space between the lines, but let’s meet.
Yet as soon as you’re beside me, in the car that splits the night
like a déjà vu, taking us somewhere (who knows where?)
the words fly like sheets of paper sucked out through the window:
in that deafness, geography no longer exists, time vanishes,
and all I want to do is lay my head on your shoulder,
weave myself into the thread of your sweater, melt.
 
 
2.
Ho fatto un sogno, mia carissima lettrice, di nidi galleggianti,
intrecci di rami sulla seta nera di un’acqua salmastra,
un bacino di lacrime di donna con chissà quale oro sul fondale.
Case di fortuna, create stagione dopo stagione da uccelli acquatici,
troppo leggere per affondare ma troppo forti per disfarsi poi
nella corrente invisibile che le porta fatalmente incontro alle onde;
trascinata lo so anch’io, una cosuccia da niente, ma galleggio (galleggio!)
e mi viene un urlo infantile, uno spavento di quelli belli – ma ecco
che sulla cresta della paura mi vieni in soccorso tu, cara amica,
perché un’onda mi butta illesa, per una finestra, dentro casa tua,
decorata con legno di spiaggia, purificato dal lungo tragitto e dal sole,
e con foglie raccolte da terra: roba di trascurata, esplosiva bellezza.
O forse è casa mia, carissima sorella gemella specchio dell’anima,
che prendi una copertina di muschio trovato nel bosco e me la porgi
con dita incallite ma tenere e un sorriso che già tutto sa – e poi
mi sono svegliata con questa tua poesia, un mulinello nella testa.
 
2.
I had a dream, my dearest reader, of floating nests: branches
woven together and floating on the black silk of brackish water,
a basin of women’s tears with who knows what gold on the bottom.
Makeshift houses, built season after season by waterbirds,
too light to sink yet too strong to fall apart when, then,
an invisible current sets up a fatal encounter with the waves;
I too am pulled along, a nothing on the water, but I’m floating (floating!)
and I let out a childish scream of delight at the fright – but there,
on the crest of my fear, you come to rescue me, dear friend,
because a wave throws me unharmed through a window into your house,
decorated with driftwood cleansed by the long journey and the tall sun
and with leaves fallen to the ground: things of overlooked, explosive beauty.
Or maybe the house is my own, dearest twin sister my mirror reflection,
who are now taking out a little moss blanket and handing it to me
with callused but tender fingers and a knowing smile – and then
I woke up with this poem of yours, a whirlpool in my head.

Wednesday, August 28, 2019

Manifestando



Photo by Ashley Katz
Per un periodo di tempo intorno ai quattordici anni, facevo lezioni private presso uno scultore. Aveva capelli scompigliati e impolverati, un appartamento enorme pieno di strane sculture incomplete. La mia prima opera, una donna nuda in argilla, la pelle allisciata amorevolmente dalle mie dita ancora bagnate, lui, giudicandola banale, me la fece tagliare a metà. Un’accettata trasversale al busto, un editing brutale.


For a period of time around the age of fourteen, I took private sculpture lessons. The sculptor had a messy, dusty mop of hair and a huge apartment full of strange, half-completed works. My first sculpture, a female nude, her clay skin lovingly smoothed by my still wet fingers, he called “ordinary” and had me cut it in half. A diagonal axe blow across the chest, a brutal act of editing.


Ma quello scultore era un’eccentrica eccezione. In genere nessuno si permette di toccare una scultura, un dipinto, una sinfonia. L’opera è considerata completa così com’è, bella o brutta che sia, un’espressione sgorgata dall’intimo dell’autore, perfetta anche nella sua imperfezione. E comunque a un certo punto, per un’opera figurativa perfino l’auto-editing diventa impossibile. L’osservatore allora giudica l’insieme, la sensazione che suscita o il simbolismo, ma mai direbbe all’artista, “Però perché non hai tolto questo braccio oppure messo un po’ di blu qui al centro?” Invece all’autore di un romanzo sì. “Perché hai messo questa battuta nel dialogo?” dice, “Perché non hai dato più informazioni su questo personaggio?” Tutti, cani e porci e io per prima, si sentono autorizzati a giudicare un’opera letteraria nei minimi dettagli.


But that sculptor was an eccentric exception. Hardly anyone would dare touch a sculpture, a painting, a symphony. The piece is taken as is, beautiful or not; it’s seen as a self-contained expression flowing from the inner depths of its maker, perfect even in its imperfection. In any case, a visual work of art can't even be self-edited beyond a certain point. The onlooker therefore judges it as a whole, in terms of the emotions it arouses or its symbolism, but never would they say to the artist, “Why didn’t you remove this arm here or add a splash of blue in the middle?” Not so with a novelist. “Why did you put this line in the dialogue?” they’ll say. “Why didn’t you give more information about this character?” Every Tom, Dick and Harry (and Heddi too) feels entitled to judge a literary work in minute detail.


Questa differenza si spiega in parte con le dimensioni. Mentre uno scultore può impiegare una settimana, un mese, alcuni mesi al massimo per creare un’opera, uno scrittore ci perde un anno, due, cinque, anche dieci anni. E al lettore non bastano dieci minuti di contemplazione per assimilarlo. Un romanzo è una costruzione grande e complessa che assomiglia più ad un edificio che a una scultura. E proprio per colpa di questa sua grandezza, è facile perdere l’inquadratura dell’insieme. Ci si sofferma invece sui personaggi e le loro scelte, sulle scene che si susseguono, su frasi particolari o anche (nel mio caso) sulle virgole. Si vedono gli alberi e non la foresta.


This difference is partly a matter of size. Whereas a sculptor might take a week, a month or a few months at most to create a piece, a writer takes a year or two, or five, or even ten years. And a good ten minutes of contemplation is simply not enough time for the reader to take it all in. A novel is a large, complex construction that resembles a building more than a sculpture. And it’s because of its size that it’s easy to lose sight of the whole. The reader lingers on characters and their choices, scenes coming one after the next, particular sentences or even (as I am guilty of) commas. They can’t see the forest for the trees.

Un altro fattore è che un bel romanzo ti trascina, il viaggio dei protagonisti ti coinvolge anima e corpo, ti rende fisicamente partecipe. Ti toglie il fiato, costringendoti a fermarti per assorbire il colpire, ti fa uscire lacrime di tristezza o di gioia. Tutto ciò per giorni o settimane intere: i più belli rimangono con noi per sempre, come esperienza vissuta personalmente. Ma anche questa partecipazione totalizzante ci può rendere un po’ miopi, proprio nel modo in cui, vivendo da vicino la quotidianità dell’esistenza, siamo ciechi all’arco narrativo della nostra vita.


Another factor is that a great book sucks you in; the protagonist’s journey grabs you, heart and soul – and body. It takes your breath away, forcing you to stop to recover, as if you’ve been punched in the gut; it makes you shed tears of sadness or joy. All of this for days or weeks on end: the best of the best stay with us forever, becoming experiences we feel we’ve personally gone through. But it’s this all-consuming participation that can make the reader somewhat near-sighted, in the same way that going through the daily grind in such an up-close way makes us blind to the narrative arc of our own lives.


Ma forse il motivo principale è che in fondo non consideriamo la narrativa, né forse dovremmo considerarla, un’arte. Che cos’è la narrativa se non la narrazione, le storie raccontate intorno al fuoco da tempo immemore, le prime ed eterne mitologie sulle pulsioni dell’uomo? La narrativa è fatta poi di parole, che, a differenza dell’argilla o del marmo o dei pastelli o della chitarra, vengono usate tutti i giorni da tutti quanti (e di tutte le classi sociali e tutte le età) per negoziare, spettegolare, scherzare – il linguaggio che è alla base della nostra stessa umanità. Siamo la specie metaforica – questa serie di suoni sta per un particolare oggetto, questo anello sta per l’amore, questo fulmine sta per l’ira di un dio – che interpreta e costruisce il mondo. Senza la musica o i quadri, la nostra vita sarebbe certamente molto più povera, ma senza la narrativa noi neanche esisteremmo. La parola è talmente scontata, fa talmente da sfondo alla nostra esistenza, che ci dimentichiamo continuamente della sua funzione metaforica come ci si dimentica di telefonare alla mamma.


But maybe the main reason is that deep down we don’t, nor perhaps should we, consider fiction to be an artform. What is fiction if not storytelling, those same stories told around the fire since time immemorial, the first and eternal mythologies about what drives man? Narratives are simply made up of words, which, unlike clay or marble or pastels or the guitar, are used every day by everybody (of every class and age group) for bargaining, gossiping, joking – the language which is at the root of our very humanity. We are the metaphoric species – this series of sounds stands for a particular object, this ring stands for love, this thunderbolt stands for a god’s wrath – which interprets and constructs the world. Without music or painting, our lives would certainly be greatly impoverished, but without narratives we wouldn’t even exist. Language is so taken for granted, so much the backdrop to our existence, that we constantly forget about its metaphoric function just like we forget to pick up the phone and call mom.


Perciò esistono tantissime persone, anche colte, che parlano di libri nello stesso modo in cui parlano dei film, in termini di trama: “Parla di un ragazzo schiavo che fugge dal padrone.” Eppure quelle stesse persone, afferrando al volo la metafora di un quadro di Klimt, non direbbero mai, “Quest’opera parla di un uomo che bacia una donna.” Per molti la trama di un romanzo non è il mezzo ma il fine. Ma io trovo stranissima questa idea diffusa, infatti quasi universale, della letteratura come forma di intrattenimento. La vita non è divertente: è misteriosa. E la tensione narrativa, la velocità della trama che mette sempre più fame di pagine, non è affatto evasione ma il miglior veicolo narrativo per arrivare in fondo al mistero della vita, al suo sottostrato più profondo, quello mitologico che sfiora l’eterno.

That’s why there are so many people out there, even the well-read ones, who talk about books the same way they talk about movies, in terms of plot: “It’s about a slave boy who runs away from his owner.” Yet these very same individuals, immediately grasping the metaphor behind a Klimt painting, would never say, “This piece is about a man who is kissing a woman.” For many people, the plot of a novel becomes the end and not the means. But I find it downright weird, although it’s so common as to be nearly universal, that literature is considered a form of entertainment. Life isn’t fun: it’s mysterious. And narrative tension is the best narrative technique to get readers to the bottom of it, to life’s deeper, more mythological level where the divine is almost within reach.

Ma proprio poiché il linguaggio è la nostra prima metafora (come ogni genitore di un neonato può constatare), e dunque la più scontata, è quella più capace di rendere visibile l’invisibile, di farci intuire la nostra umanità e quindi la nostra divinità. Può darsi che io sia giunta a questa conclusione solo perché non ero abbastanza brava a fare scultura, e forse nemmeno a disegnare, dipingere o fare fotografie, e perché le mie mani sono troppo piccole per il pianoforte, le gambe troppe corte per la danza. Ma è l’unica vera fede che ho. La fede che la parola è l’unica metafora ricca abbastanza per catturare la complessità della nostra esperienza di vita su questo strano e magnifico pianeta. La fede che le storie ci divertono non perché ci distraggano dalla vita ma perché ci fanno avvicinare alla vita, svelandone l’essenza. La fede che la struttura narrativa, soprattutto quella classica che vede il protagonista superare degli ostacoli in un percorso di crescita per poi tornare vittorioso a casa, riflette l’esperienza di ognuno di noi in quanto rispecchia la natura labirintica della psiche umana, che è un tortuoso cerchio che si chiude. La fede che le storie costruite così, nella nostra immagine e somiglianza, possono avere un potere trasformativo, lasciando nell’anima la stessa traccia magica dei sogni notturni, che al mattino sfuggono alle parole.

But it’s precisely because language is our first metaphor (as any parent of a newborn will attest to), and therefore the one most taken for granted, that it’s the metaphor with the greatest power to bring the invisible to light, to give us a sense of our humanity and thus our divinity. Maybe I’ve reached this conclusion only because I wasn’t good enough at sculpture, or probably not even drawing, painting or photography, and because my hands are too small for piano and my legs too short for dance. But it’s the only true faith I have. The faith that language is the only metaphor rich enough to capture the complexity of our experience of living on this strange and magnificent planet. The faith that stories entertain us not because they distract us from life but because they bring us closer to life and bring out its essence. The faith that narrative structure, especially the classic one whereby the main character overcomes obstacles on a journey of inner growth before returning home with his riches, reflects the experience of each and every one of us because it mirrors the labyrinthic nature of the human psyche, a twisting path that eventually comes full circle. The faith that stories built like this, in our image and likeness, can have a transformative effect, leaving behind in our souls the same magical trace as night-time dreams, which in the morning elude words.   

Thursday, May 9, 2019

Elettricità nell’aria


(photo by Rahul)
Una settimana fa è scoppiata la lampadina nel bagno. Non semplicemente fulminata, ma esplosa in mille pezzi, schegge taglienti finite nella lavatrice, nei croccantini del gatto, nel corridoio. Ma è già la seconda volta che mi succede una cosa del genere: pochi mesi fa una lampadina si è spenta mandando per tutta la camera spruzzi di scintille bianche degni di Capodanno.

A week ago a lightbulb exploded in my bathroom. It didn’t just go out but rather burst into a thousand pieces, sharp shards ending up in the washing machine, the cat’s kibble, the hallway. But it’s already the second time that something like this has happened: a few months ago a lightbulb went out showering the guest room with white sparks in a show worthy of the Fourth of July.

C’è elettricità nell’aria. La vedo, la sento. E scientificamente infatti c’è, soprattutto in una giornata ventilata come oggi, perché il vento riempie l’aria di ioni che hanno una carica elettrica che porta irritabilità, ansia, allergie. Per quella legge della natura secondo la quale le cose non sono sempre quelle che sembrano, o magari per uno scherzo linguistico, sono proprio gli ioni caricati positivamente che risultano negativi alla nostra salute fisica e mentale. Ma gli ioni positivi non sono sempre stati così. Come Darth Vader, prima erano integri, atomi tutti di un pezzo, ma poi hanno perso un elettrone e abbracciato il lato oscuro. Incattiviti forse per quella dolorosa perdita, strisciano fuori dai computer, forni a microonde e tubi di scappamento, per schizzare squilibrati nell’aria. E noi letteralmente li ingoiamo.

There’s electricity in the air. I can see it, I can feel it. And, scientifically speaking, it is in the air, especially on a windy day like today, because wind creates electrically charged ions, which in turn cause irritability, anxiety, allergies. According to that natural law by which things are not always as they seem, or perhaps it’s just one of those linguistic tricks, it’s the positively charged ions that have negative effects on our physical and mental health. But positive ions were not always this way. Like Darth Vader, they used to be stand-up guys, real wholesome atoms, but then they lost an electron and embraced the dark side. Hardened by their painful loss, they slither out of computers, microwaves and exhaust pipes to run amok in the air. And we swallow them, literally.

Per fortuna, come succede nella migliore tradizione hollywoodiana, arrivano – dai boschi, dal mare o dalle cascate d’acqua – i buoni, gli ioni negativi, per neutralizzare i cattivi con una sola sciabolata di carica negativa che li fa perdere ogni forza e cadere a terra.

Fortunately, just like in Hollywood, the good guys turn up. Negative ions rush in from the forests, beaches and waterfalls to neutralize the baddies with their negative charge, a single blow of which drains them of all their power and makes them fall to the ground.

Mi chiedo se tutto questo c’entra qualcosa con le lampadine di casa mia. E in effetti, gli ioni non assomigliano, secondo le illustrazioni scolastiche, a delle minuscole lampadine elettriche? Forse c’è stata una perdita di qualcosa nel proprio nucleo, un rovesciamento dell’equilibrio del cuore, e non possono più essere le stesse di prima. Lampadine in preda a un profondo cambiamento, lampadine in crisi.

I wonder if all this might have something to do with the lightbulbs in my house. And actually, if you look at a school textbook, don’t you think ions look a bit like tiny lightbulbs? Maybe they lost something deep within their nucleus and there is turmoil within their hearts, and now they can't go back to being who were before. Lightbulbs going through a sea change, lightbulbs having a meltdown.

Ma non è detto che le lampadine siano come gli ioni cattivi, perché nemmeno gli ioni buoni sarebbero tali se non fossero prima passati attraverso un processo di trasformazione. Anche loro prima erano atomi normalissimi, senza instabilità ne’ complicazioni, che però ad un certo punto hanno subìto uno sconvolgimento, dovuto a fattori esterni, atmosferici, acquisendo un elettrone in più. E dunque ciò che li ispira, ciò che gli accende l’anima e la voglia di migliorare il mondo, è il cambiamento. Lo ione è definito proprio dal movimento: deriva dal greco ienai, “andare”. Sono atomi irrequieti.

And yet who’s to say that lightbulbs are like bad ions? For not even the good ions would be good if they hadn’t first undergone a process of transformation. They too used to be perfectly normal atoms, without any worries or signs of instability, who then, at some point and for whatever external, atmospheric reasons, experienced an upheaval by gaining an electron. And so what drives them, what fires them up and makes them want to make the world a better place, is change. An ion is defined by movement: it comes from the Greek ienai, “to go”. Ions are just restless souls.

Alla fine, l’unica storia che vale la pena di raccontare è l’evoluzione dell’essere. Per questo, aspetto con gioia la terza volta che una lampadina mi esplode, come un’epifania, sopra la testa, facendomi testimone della sua dolorosa ma spettacolare metamorfosi. Tre, nei racconti antichi come anche nella natura, è il numero magico. E poi non c’è due senza tre.

In the end, the only story worth telling is the story of the evolution of the self. That’s why I joyfully await the third time a lightbulb explodes over my head, like an epiphany, so that I can witness its painful but spectacular metamorphosis. Three, in ancient stories just as in nature, is the magic number. And the third time’s a charm.

Friday, February 15, 2019

Il congiuntivo e' la coda di una lucertola


Finalmente, dopo tanti anni, ho fatto pace con il congiuntivo. Ho smesso di maledirlo, di combatterlo.

Finally, after all these years of speaking Italian, I’ve made peace with the subjunctive. I’ve stopped cursing it, I’ve stopped fighting it.

Avevo imparato l’italiano a sedici anni a Castellammare di Stabia, e quella forma verbale mi sembrava un po’ snob e lontana dalla lingua del cuore, e dal dialetto. Il congiuntivo commetteva addirittura un’ingiustizia, per come sottometteva la seconda metà della frase mettendo in dubbio il suo diritto di esistere. Sono contenta che lui mi abbia chiamato. Ma lui mi ha chiamato, ragionavo, su questo non ci sono santi! Così come subordinava la realtà, anche nel suo uso più accettato sgonfiava i sogni. Spero che mi abbia chiamato. Detto così, non c’era speranza proprio. Avrei voluto scrivere una tesi semiologica sul congiuntivo, contattare la Treccani, farlo abolire.

I learned Italian when I was sixteen and living in Castellammare di Stabia, in the province of Naples. At the time that verb form seemed somewhat stuck-up and removed from the language of the heart, and from the dialect. The subjunctive was even committing an injustice, the way it subjugated the second half of the sentence like that, casting doubt on its very right to exist. Sono contenta che lui mi abbia chiamato [I’m glad he called me].” But he did call me, I reasoned, so there could be no doubt about it! In the same way that it subjugated reality, even in its most formulaic usage the subjunctive deflated the speaker’s hopes and dreams. Spero che mi abbia chiamato [I hope he called me].” Put like that, grammatically speaking there wasn’t a chance in hell. I wanted to write a semiological thesis on the subjunctive form, contact the authorities, have it abolished.

Soltanto ora capisco che quella mia guerra filosofica era fondata su una profonda incomprensione.

Only now do I understand that the philosophical war I was fighting was based on a deep misunderstanding.

L’altro giorno il mio gatto ha portato in casa un geco. Una lucertolina scura che non si fidava del mio bicchiere di plastica che tentava di portarla in salvo, e che era molto più veloce della media. Ho sbagliato mira. L’orlo del bicchiere gli ha scisso la coda, in modo più netto di quanto avrebbe potuto fare il mio gatto in tutta la sua indifferenza. Per un attimo sono rimasta lì inginocchiata, sconvolta dall’atto involontario che mi aveva trasformata, in un battibaleno, da soccorritore in boia. E inorridita dalla scena davanti agli occhi.

The other day my cat brought a gecko into the house. A little dark one that was untrusting of the plastic cup I was trying to save it with and much faster than your average lizard. My aim was off. The edge of the cup sliced off his tail, a clean cut that not even my cat in all her indifference could have made. For a second I just kneeled there shocked by my involuntary act that had, in a split second, turned me from savior to executioner. And horrified by the scene before my eyes.

Il geco era schizzato sotto un mobile, ma sopra il parquet la sua coda si contorceva come se provasse un dolore insopportabile. Sembrava viva. Quella coda, che credevo forse un inutile accessorio estetico trascinato di qua e di là contro il suo volere, in verità si opponeva con tutte le forze al distacco dal corpo. Quella coda non voleva l’autonomia, non voleva l’emancipazione: voleva far parte di qualcosa di più grande, di più importante, di lei. L’ingiustizia l’avevo fatta io. Perché era solo in quella sua voglia matta di partecipare, di dipendere da qualcuno ed essere portata per mano, che aveva un suo perché.

The gecko had darted under the cupboard, but his tail was writhing on the wooden floor as if in the throes of an unbearable pain. It looked alive. That tail, which I’d thought of as a useless, aesthetic accessory dragged around against its will, was in reality fighting with all its might against being detached from its body. That tail didn’t want independence, it didn’t want emancipation: it wanted to be a part of something bigger and greater than itself. The injustice was mine. Because it was only in its wild desire to participate, to depend on someone and be led by the hand, that it had any reason to exist at all.

Monday, October 22, 2018

L'universo racchiuso in un libro

Photo by Michael Liao
Secondo Einstein e la fisica, il tempo è un’illusione. Il tempo non è in realtà un film al cinema che vediamo scorrere dal primo fotogramma all’ultimo in maniera unidirezionale senza la possibilità di fermare il nastro, riavvolgerlo, saltare in avanti. Il tempo, ci spiegano con fatica, non è lineare e nemmeno universale bensì personale, fluttuante, impreciso. Ogni sequenza di eventi ha il suo tempo. E chi non ha vissuto sulla pelle il rallentamento dei minuti durante un bacio, l’accelerazione in un momento di stress? L’unico orologio che può misurare il tempo in modo davvero universale è l’orologio atomico, che calcola le vibrazioni nucleari degli atomi, velocissime pulsazioni ritmiche come di un musicista che batte instancabilmente il tamburo per garantire la nostra trance collettiva sapendo che se gli atomi dervisci dovessero smettere di ballare – anche per un nanosecondo – tutto l’universo cesserebbe di esistere.

According to Einstein and physics, time is an illusion. Time is not actually like a movie rolling before us in the theater from the first to the last frame, moving in one direction only without giving us the chance to stop the film, rewind or forward. Time, though it seems counter-intuitive, isn’t linear at all nor is it universal but personal, shifting and imprecise. Each sequence of events goes by its own clock. And which of us hasn’t experienced how the minutes slow to a crawl during a kiss and speed up when we’re stressed? The only clock that can measure time in a truly universal way is the atomic clock, which counts the nuclear vibrations of atoms, the rapid rhythmic pulsing like that of a musician tirelessly beating his drum to make sure that the collective trance isn’t broken – because he knows that if the atoms were to stop their dervish dance, even just for a nanosecond, the entire universe would cease to exist.

Infatti già in antichità Aristotele aveva capito che il tempo è solo un modo per misurare come si muovono le cose: se non succede niente, il tempo non c’è. E visto che il movimento non può che avvenire nello spazio, il tempo e lo spazio sono un tutt’uno – lo spaziotempo. Se stai fermo, seduto, percepisci il tempo in un modo, ma appena ti alzi e quindi ti muovi nello spazio, il tempo sembra rallentare. E se il tempo è nato con il Big Bang, dal suo moto esplosivo, rimane inevitabilmente legato al pianeta sotto i nostri piedi. A pianoterra, dove la forza di gravità è maggiore, il tempo scorre più lentamente rispetto ai piani superiori: allontanandoci dalla Terra, l’effetto è accentuato. Forse per questo quando meditiamo ci viene naturale sederci per terra, perfino spalmarvici sopra come angeli caduti nel vano tentativo di fermare il ticchettare dell’orologio, di vivere pienamente nel presente, schiacciati in quella zona intermedia tra passato e futuro che non esiste.

In fact, even in antiquity Aristotle understood that time is nothing more than a way to measure movement: if nothing happens, then there is no time. And since movement can only happen in space, time and space are one – spacetime. If you’re sitting still, then you perceive time in a certain way, but as soon as you stand up and move within space, time seems to slow down. And if time began with the Big Bang, from this first explosive motion, then we are inevitably bound to the planet beneath our feet. On the ground floor, where the pull of gravity is greater, time flows more slowly than on the upper floors: the further we travel from Earth, the greater the effect. Maybe that’s why when meditating it feels natural to sit on the ground, even flattening ourselves against it lying like fallen angels in a vain attempt to stop the clocking from ticking, to live fully in the present, crushed between past and future in a sliver that doesn’t really exist.

Abbi pazienza. Dunque, così come tutto lo spazio (cioè l’universo) esiste in questo momento, anche tutto il tempo esiste in questo momento – allo stesso modo in cui le stelle ormai morte esistono perché vediamo la loro vecchia luce viaggiare attraverso lo spazio. Stando alla fisica quantistica allora, secondo me il tempo non è un film ma un libro. Come le pagine che già abbiamo letto, il passato non viene sostituito dal futuro: tutto il tempo esiste già, come esistono già tutte le pagine di un libro. Di solito leggiamo le pagine cronologicamente, una dopo l’altra, ma potremmo tornare indietro se volessimo, soffermarci sull’attimo sfuggente, sfogliare, sbirciare la fine. Questa mi sembra l’unica spiegazione razionale del perché a volte nella vita riaffiora un ricordo – una sensazione vivissima – di una vita precedente, e del perché con ancora più frequenza si può leggere nel futuro.

Now bear with me. It stands to reason that if all of space (that is, our universe) exists right here right now, then all of time exists right here right now – in the same way that dead stars still exist because we see their old light travelling through space. Following the logic of quantum physics then, I see time not as a movie but as a book. Like the pages we’ve already read, the past isn’t replaced by the future: all of time already exists, just as all the pages of a book already exist. We tend to read pages chronologically, one after the next, but we could just as easily go back and reread, linger on the fleeting moment, flip through the following chapters, steal a peek at the ending. This seems to me like the only rational explanation as to why sometimes in life you might have a memory – so alive it seems real – of a past life, and why even more often it’s possible to see into the future, to read the future.

E leggere nel pensiero? Qui sta il paradosso, la magia della vita, perché lo stesso concetto di spaziotempo viene capovolto dalla scoperta delle particelle gemelle. Esistono nell’atomo alcuni quanti chiamati fotoni, particelle di luce, che sono capaci di superare il tempo e lo spazio. Sono delle particelle gemelle che prima erano una sola e poi sono state divise ma che si ricordano l’una dell’altra e continuano a specchiarsi. Anche se poste a due lati opposti dell’universo, le due particelle luminose si mandano dei messaggi che attraversano lo spazio e trapassano la materia secondo una telepatia considerata “fantasmica.” Mi fanno pensare al simpatico segnalibro che ultimamente ho dato in regalo, due calamite legate sopra dove la sorridente faccina maori davanti attraversa le pagine di carta per aggrapparsi all’identica faccina sul retro. Ma non è semplice magnetismo. L’intimo rapporto tra le particelle gemelle non può essere spiegato dalla fisica perché avviene in una dimensione fuori dallo spazio, fuori dal tempo. Come succede fra chi scrive e chi legge, la vera magia avviene fuori dal libro.

So what about reading someone’s mind? Well, that’s the paradox, the magic of life, because the very concept of spacetime is turned on its head by the discovery of twin particles. Within the atom are some quanta called photons, or light particles, that are able to overcome time and space. They are twin particles which were once connected but then separated but which remember each other and continue to mirror each other. Even if they’re placed at opposite ends of the universe, these two luminous particles will send messages that travel through space and matter using a “spooky” kind of telepathy. They make me think of this cute little bookmark I recently gave as a gift, two magnets connected at the top where one smiling Maori face on the front pushes through the paper pages to connect with the identical smiling face on the back. But it’s not simply a matter of magnetism. The close relationship between the twin particles cannot be explained by physics because it occurs in a dimension beyond space and beyond time. Like what happens between a writer and a reader, the real magic happens outside the book.

Sunday, September 2, 2018

Perché scrivo – la storia dell’umanità in due capoversi

Cueva de las manos (by Mariano Cecowski, from Wikipedia)
Scrivo perché i miei antenati pelosi sono scesi dagli alberi per incamminarsi verso terre ostili che li costringevano a cibarsi di carne invece che di frutta. Perché hanno vinto l’innata paura del fuoco per domarlo e intenerire con la cottura la carne e i tuberi. Perché masticando di meno sono riusciti non solo a nutrire rapidamente un cervello affamato di calorie, ma anche ad affinare i muscoli della bocca e della lingua per poter creare un linguaggio, dando voce anche ai fisicamente più deboli e accrescendo l’empatia. Perché hanno impugnato sassi e lance facilitando la caccia e la pesca e regalandosi più tempo per fare collane di conchiglie, disegnare sulle pareti, dipingersi di ocra gialla e cantare e ballare intorno al focolare. Io scrivo perché loro hanno scoperto la noia e perché hanno capito che creare un’inutile bellezza con le proprie mani, corpo e voce è uno sfogo unicamente umano che ha del divino, che la natura intorno a noi non è altro che l’opera di un dio che si è saputo esprimere.

I write because my hairy ancestors came down from the trees to venture into hostile lands where they had to eat meat instead of fruit. Because they overcame their inborn fear of fire to dominate it and thus tenderize meat and tubers through cooking. Because by chewing less they were able not only to quickly feed their calorie-hungry brains but also refine the muscles around their mouth and tongue to create a language, giving voice to those who were physically weaker and deepening their empathy. Because they took up rocks and spears, making it easier to hunt and fish and giving themselves more time to make necklaces from shells, draw on the walls, paint themselves with yellow ocher and sing and dance around the fire. I write because they discovered boredom and understood that creating unnecessary, beautiful things with one’s own hands, body and voice is a uniquely human outlet that smacks of divinity, and that our natural environment is nothing more than the work of a god who was particularly good at expressing himself.

Scrivo perché, per un destino miracoloso, i miei antenati non si sono estinti durante le varie eruzioni vulcaniche ed ere glaciali e hanno invece cominciato a coltivare il grano abbandonando la vita nomadica e dando campo libero alle carie. Perché hanno addomesticato il cane e le capre, scoperto i metalli e costruito villaggi sempre più squadrati ed estesi dove presero piede l’artigianato e un commercio che teneva i conti incidendo l’argilla con una canna da palude. Scrivo perché è nato dalle canne il papiro e dal carbone l’inchiostro e l’urgenza democratica e multietnica di spiegarsi con persone di madrelingua diversa tramite un alfabeto. Perché ai miei avi è venuta l’intuizione geniale che il quadrato che raffigurava una casa egizia poteva stare per il suono /b/ in semitico, dove la casa si chiamava baytu, e perché i greci ne hanno fatto la beta e i romani la b. Scrivo perché la mente umana ha la singolare capacità di vedere la metafora non solo nel mondo ma anche nel cielo, di vedere nelle stelle null’altro che il nostro riflesso, un sacro racconto in cui gli immortali protagonisti siamo noi.

I write because – by miracle, by destiny – my ancestors didn’t become extinct during the various volcanic eruptions and ice ages but started planting grain instead, giving up their nomadic lives and giving free reign to cavities. Because they domesticated dogs and goats, discovered metals and built villages that grew more and more square and vast and gave rise to craft and commercial trade whose accounts were etched into clay with a reed. I write because from reeds they made papyrus and from charcoal ink and felt a democratic and multi-ethnic urge to communicate with people of different mother tongues by the use of an alphabet. Because my forbearers had the genius insight that a drawn square representing an Egyptian house could stand for the /b/ sound in Semitic, which called a house baytu, and because the Greeks made it into their beta and the Romans into our b. I write because the human mind has the unique ability to see metaphor not only in the world but also in the heavens, to see the stars as nothing but our own reflection, a sacred story where the immortal main characters are us.