Wednesday, June 20, 2012

I blame Naples (Italian version)

Do la colpa a Napoli, dove ho vissuto per dieci anni, per tutta una serie di cose. Per un cuore infranto. Per la mia agorafobia. Per il mio snobismo culinario. Per la mia tendenza all’eccessiva gesticolazione. E per la mia incertezza sulle flessioni del italiano standard.

Direte che prendersela con Napoli per un’incapacità linguistica è un po’ come prendersela con i vicini di casa per l’incapacità di fare il vialetto in retromarcia dopo che hanno potato con troppo entusiasmo i cespugli. Però la potatura – in senso linguistico – comporta molto più problemi di quanto si creda.

Vi spiego. Il dialetto napoletano tende a mozzare la vocale finale nella maggior parte delle parole. Be’, non svanisce esattamente ma piuttosto si squaglia – come la mozzarella di bufala – per assomigliare un po’ allo ‘schwa’, quel tipico suono indeterminato, simile a un grugnito, che rende l’inglese così elegante. Uno potrebbe pensare che i napoletani, storicamente famosi per il dolce far niente e un alto tasso di disoccupazione, avrebbero tempo libero a palate per portare a termine una parola, soprattutto nella lingua italiana dove le flessioni sono indispensabili per la precisione del messaggio. Ma non è così che le lingue – o le persone – funzionano.

In ogni caso, la pronuncia ‘potata’ del dialetto si estende al italiano parlato per le strade di Napoli, per cui termini come ‘botto’, ‘botte’ e ‘botta’, pronunciati con forte accento partenopeo, suonano uguali. Le flessioni verbali sono sfocate.

Per gli studenti d’italiano, come ero io all’età di sedici anni nella provincia di Napoli, questa diffusa approssimazione grammaticale può tornare molto utile. È pure utile per persone del posto poco istruite che per di più sono cresciute con solo il napoletano in casa. Finché, cioè, sono costrette a parlare la lingua ufficiale. Una volta ho visto un’intervista sul telegiornale con una napoletana che era testimone del crollo di una casa nel proprio quartiere fatiscente. Lo sforzo che lei faceva per cercare di azzeccare tutte le corrette flessioni italiane era uno spettacolo penosamente divertente. Lei non si distingueva poi così tanto da una tedesca in scambio culturale – ubriaca.

Dopo cinque anni di studi universitari a Napoli, io non mi identificavo né con la napoletana che faceva una figura di merda in diretta né con la tedesca che faceva una figura di merda in piazza. Ero eloquente e istruita. Comunicavo quotidianamente in italiano per bene con i miei compagni dell’Orientale provenienti da tutta Italia. Ho scritto la mia tesi di laurea in italiano. In semiologia, per l’amor del cielo!

Ma posso dirvi che una volta che ho lasciato Napoli per la Nuova Zelanda – a quasi trent’anni – e ho perso quel contatto giornaliero con la lingua, la mia certezza sulle flessioni italiane è stata la prima cosa a scomparire. Tuttora devo continuamente fermarmi a pensare: ‘fosso’ o ‘fossa’? 'Succulente' o succulento'?

'Napoli' o 'mezza età'?

Tuesday, June 5, 2012

I blame Naples



Dolce Far Niente, vintage postcard retrieved from http://www.annuncinapoli.it/
I can blame Naples – my home for ten years – for a lot of things. For a broken heart. For my agoraphobia. For my food snobbery. For my tendency to overgesticulate. And for my lack of confidence regarding proper Italian word endings.

You may say that blaming Naples for my poor language skills is a bit like blaming my neighbors’ trimming their bushes for my poor driving skills reversing down our shared driveway. But pruning – linguistically speaking – can be a bigger problem than you might think.

Let me explain. The spoken Neapolitan dialect tends to lop off the final vowel in most words. Well, it doesn’t exactly vanish but rather it melts – like buffalo mozzarella – into something like a schwa, that unclassifiable and typically English “uh” sound that makes its native speakers sound so very elegant. You’d think that Neapolitans, historically famous for their dolce far niente lifestyle and high unemployment, would have plenty of free time to finish off a word, especially in the Italian language where the inflections are so crucial to getting the message right. But that’s not how languages – or people – work.

In any case, the pruned pronunciation of the dialect extends to the ‘proper’ Italian spoken in Naples, meaning that Italian words like botto (thud) botte (barrel) botta (bang), said in a heavy Neapolitan accent, all sound the same. Verb conjugations can get blurred.

If you’re a learner of Italian, like I was as a sixteen-year-old in the province of Naples, this widespread grammatical fuzziness can be quite handy. It’s also handy for uneducated locals who have grown up with the Neapolitan dialect as their first language. Until, that is, they’re forced to speak standard Italian. Once I saw a news interview with a Neapolitan woman who had witnessed a building collapse in her ghetto. The strain of trying to get all those proper Italian declensions right was painfully entertaining. She didn’t sound all that different from a drunk exchange student from Germany.

After five years of university study in Naples, I could identify neither with that Neapolitan making a fool of herself on national television nor with the German making a fool of herself in the main piazza. I was well-spoken and well-read. I communicated daily with my fellow linguistics students, from all over Italy. I wrote my Masters thesis in Italian. In semiotics, for goodness sake.

But I can tell you that once I left Naples for New Zealand – in my late twenties – and lost my everyday exposure to the language, my confidence in Italian word endings was the very first thing to go. Even now I constantly have to stop and ask myself: is it fosso or fossa? Succulente or succulento?

Naples or middle age?