Wednesday, August 28, 2019

Manifestando



Photo by Ashley Katz
Per un periodo di tempo intorno ai quattordici anni, facevo lezioni private presso uno scultore. Aveva capelli scompigliati e impolverati, un appartamento enorme pieno di strane sculture incomplete. La mia prima opera, una donna nuda in argilla, la pelle allisciata amorevolmente dalle mie dita ancora bagnate, lui, giudicandola banale, me la fece tagliare a metà. Un’accettata trasversale al busto, un editing brutale.


For a period of time around the age of fourteen, I took private sculpture lessons. The sculptor had a messy, dusty mop of hair and a huge apartment full of strange, half-completed works. My first sculpture, a female nude, her clay skin lovingly smoothed by my still wet fingers, he called “ordinary” and had me cut it in half. A diagonal axe blow across the chest, a brutal act of editing.


Ma quello scultore era un’eccentrica eccezione. In genere nessuno si permette di toccare una scultura, un dipinto, una sinfonia. L’opera è considerata completa così com’è, bella o brutta che sia, un’espressione sgorgata dall’intimo dell’autore, perfetta anche nella sua imperfezione. E comunque a un certo punto, per un’opera figurativa perfino l’auto-editing diventa impossibile. L’osservatore allora giudica l’insieme, la sensazione che suscita o il simbolismo, ma mai direbbe all’artista, “Però perché non hai tolto questo braccio oppure messo un po’ di blu qui al centro?” Invece all’autore di un romanzo sì. “Perché hai messo questa battuta nel dialogo?” dice, “Perché non hai dato più informazioni su questo personaggio?” Tutti, cani e porci e io per prima, si sentono autorizzati a giudicare un’opera letteraria nei minimi dettagli.


But that sculptor was an eccentric exception. Hardly anyone would dare touch a sculpture, a painting, a symphony. The piece is taken as is, beautiful or not; it’s seen as a self-contained expression flowing from the inner depths of its maker, perfect even in its imperfection. In any case, a visual work of art can't even be self-edited beyond a certain point. The onlooker therefore judges it as a whole, in terms of the emotions it arouses or its symbolism, but never would they say to the artist, “Why didn’t you remove this arm here or add a splash of blue in the middle?” Not so with a novelist. “Why did you put this line in the dialogue?” they’ll say. “Why didn’t you give more information about this character?” Every Tom, Dick and Harry (and Heddi too) feels entitled to judge a literary work in minute detail.


Questa differenza si spiega in parte con le dimensioni. Mentre uno scultore può impiegare una settimana, un mese, alcuni mesi al massimo per creare un’opera, uno scrittore ci perde un anno, due, cinque, anche dieci anni. E al lettore non bastano dieci minuti di contemplazione per assimilarlo. Un romanzo è una costruzione grande e complessa che assomiglia più ad un edificio che a una scultura. E proprio per colpa di questa sua grandezza, è facile perdere l’inquadratura dell’insieme. Ci si sofferma invece sui personaggi e le loro scelte, sulle scene che si susseguono, su frasi particolari o anche (nel mio caso) sulle virgole. Si vedono gli alberi e non la foresta.


This difference is partly a matter of size. Whereas a sculptor might take a week, a month or a few months at most to create a piece, a writer takes a year or two, or five, or even ten years. And a good ten minutes of contemplation is simply not enough time for the reader to take it all in. A novel is a large, complex construction that resembles a building more than a sculpture. And it’s because of its size that it’s easy to lose sight of the whole. The reader lingers on characters and their choices, scenes coming one after the next, particular sentences or even (as I am guilty of) commas. They can’t see the forest for the trees.

Un altro fattore è che un bel romanzo ti trascina, il viaggio dei protagonisti ti coinvolge anima e corpo, ti rende fisicamente partecipe. Ti toglie il fiato, costringendoti a fermarti per assorbire il colpire, ti fa uscire lacrime di tristezza o di gioia. Tutto ciò per giorni o settimane intere: i più belli rimangono con noi per sempre, come esperienza vissuta personalmente. Ma anche questa partecipazione totalizzante ci può rendere un po’ miopi, proprio nel modo in cui, vivendo da vicino la quotidianità dell’esistenza, siamo ciechi all’arco narrativo della nostra vita.


Another factor is that a great book sucks you in; the protagonist’s journey grabs you, heart and soul – and body. It takes your breath away, forcing you to stop to recover, as if you’ve been punched in the gut; it makes you shed tears of sadness or joy. All of this for days or weeks on end: the best of the best stay with us forever, becoming experiences we feel we’ve personally gone through. But it’s this all-consuming participation that can make the reader somewhat near-sighted, in the same way that going through the daily grind in such an up-close way makes us blind to the narrative arc of our own lives.


Ma forse il motivo principale è che in fondo non consideriamo la narrativa, né forse dovremmo considerarla, un’arte. Che cos’è la narrativa se non la narrazione, le storie raccontate intorno al fuoco da tempo immemore, le prime ed eterne mitologie sulle pulsioni dell’uomo? La narrativa è fatta poi di parole, che, a differenza dell’argilla o del marmo o dei pastelli o della chitarra, vengono usate tutti i giorni da tutti quanti (e di tutte le classi sociali e tutte le età) per negoziare, spettegolare, scherzare – il linguaggio che è alla base della nostra stessa umanità. Siamo la specie metaforica – questa serie di suoni sta per un particolare oggetto, questo anello sta per l’amore, questo fulmine sta per l’ira di un dio – che interpreta e costruisce il mondo. Senza la musica o i quadri, la nostra vita sarebbe certamente molto più povera, ma senza la narrativa noi neanche esisteremmo. La parola è talmente scontata, fa talmente da sfondo alla nostra esistenza, che ci dimentichiamo continuamente della sua funzione metaforica come ci si dimentica di telefonare alla mamma.


But maybe the main reason is that deep down we don’t, nor perhaps should we, consider fiction to be an artform. What is fiction if not storytelling, those same stories told around the fire since time immemorial, the first and eternal mythologies about what drives man? Narratives are simply made up of words, which, unlike clay or marble or pastels or the guitar, are used every day by everybody (of every class and age group) for bargaining, gossiping, joking – the language which is at the root of our very humanity. We are the metaphoric species – this series of sounds stands for a particular object, this ring stands for love, this thunderbolt stands for a god’s wrath – which interprets and constructs the world. Without music or painting, our lives would certainly be greatly impoverished, but without narratives we wouldn’t even exist. Language is so taken for granted, so much the backdrop to our existence, that we constantly forget about its metaphoric function just like we forget to pick up the phone and call mom.


Perciò esistono tantissime persone, anche colte, che parlano di libri nello stesso modo in cui parlano dei film, in termini di trama: “Parla di un ragazzo schiavo che fugge dal padrone.” Eppure quelle stesse persone, afferrando al volo la metafora di un quadro di Klimt, non direbbero mai, “Quest’opera parla di un uomo che bacia una donna.” Per molti la trama di un romanzo non è il mezzo ma il fine. Ma io trovo stranissima questa idea diffusa, infatti quasi universale, della letteratura come forma di intrattenimento. La vita non è divertente: è misteriosa. E la tensione narrativa, la velocità della trama che mette sempre più fame di pagine, non è affatto evasione ma il miglior veicolo narrativo per arrivare in fondo al mistero della vita, al suo sottostrato più profondo, quello mitologico che sfiora l’eterno.

That’s why there are so many people out there, even the well-read ones, who talk about books the same way they talk about movies, in terms of plot: “It’s about a slave boy who runs away from his owner.” Yet these very same individuals, immediately grasping the metaphor behind a Klimt painting, would never say, “This piece is about a man who is kissing a woman.” For many people, the plot of a novel becomes the end and not the means. But I find it downright weird, although it’s so common as to be nearly universal, that literature is considered a form of entertainment. Life isn’t fun: it’s mysterious. And narrative tension is the best narrative technique to get readers to the bottom of it, to life’s deeper, more mythological level where the divine is almost within reach.

Ma proprio poiché il linguaggio è la nostra prima metafora (come ogni genitore di un neonato può constatare), e dunque la più scontata, è quella più capace di rendere visibile l’invisibile, di farci intuire la nostra umanità e quindi la nostra divinità. Può darsi che io sia giunta a questa conclusione solo perché non ero abbastanza brava a fare scultura, e forse nemmeno a disegnare, dipingere o fare fotografie, e perché le mie mani sono troppo piccole per il pianoforte, le gambe troppe corte per la danza. Ma è l’unica vera fede che ho. La fede che la parola è l’unica metafora ricca abbastanza per catturare la complessità della nostra esperienza di vita su questo strano e magnifico pianeta. La fede che le storie ci divertono non perché ci distraggano dalla vita ma perché ci fanno avvicinare alla vita, svelandone l’essenza. La fede che la struttura narrativa, soprattutto quella classica che vede il protagonista superare degli ostacoli in un percorso di crescita per poi tornare vittorioso a casa, riflette l’esperienza di ognuno di noi in quanto rispecchia la natura labirintica della psiche umana, che è un tortuoso cerchio che si chiude. La fede che le storie costruite così, nella nostra immagine e somiglianza, possono avere un potere trasformativo, lasciando nell’anima la stessa traccia magica dei sogni notturni, che al mattino sfuggono alle parole.

But it’s precisely because language is our first metaphor (as any parent of a newborn will attest to), and therefore the one most taken for granted, that it’s the metaphor with the greatest power to bring the invisible to light, to give us a sense of our humanity and thus our divinity. Maybe I’ve reached this conclusion only because I wasn’t good enough at sculpture, or probably not even drawing, painting or photography, and because my hands are too small for piano and my legs too short for dance. But it’s the only true faith I have. The faith that language is the only metaphor rich enough to capture the complexity of our experience of living on this strange and magnificent planet. The faith that stories entertain us not because they distract us from life but because they bring us closer to life and bring out its essence. The faith that narrative structure, especially the classic one whereby the main character overcomes obstacles on a journey of inner growth before returning home with his riches, reflects the experience of each and every one of us because it mirrors the labyrinthic nature of the human psyche, a twisting path that eventually comes full circle. The faith that stories built like this, in our image and likeness, can have a transformative effect, leaving behind in our souls the same magical trace as night-time dreams, which in the morning elude words.